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Leonor de Moura Omodei

TRA SPAGNA, SICILIA E CUSANO,
LA RISCOPERTA DI UNA DONNA “MODERNA”

Ho vissuto un tempo in cui la nascita di una figlia femmina veniva accolta come un accidente: servivano figli maschi per portare avanti i destini di una famiglia. Ai maschi spettavano i diritti di primogenitura, solo i maschi potevano ereditare i patrimoni di famiglia e ai maschi soltanto era riconosciuto il potere di comandare. Forse, è anche per questo che noi donne siamo state così tanto a lungo ignorate dalla storia: non sono mancate quelle che hanno assunto ruoli di prestigio, spesso come fosse uno strano scherzo del destino, chiamate a esercitare un potere maschile solo perché mancavano eredi maschi o perché il Signore richiamava a sé i nostri sposi prima di noi, ma neppure quelle donne che, come me, hanno saputo dimostrare il loro valore sono riuscite a cambiare le leggi degli uomini.

 

Se credete che io stia esagerando, ebbene: conoscete il mio nome, la mia storia? Io sono dona Leonor de Moura, figlia di Francisco, marchese di Castel Rodrigo. Abbiamo origini portoghesi, è vero, ma alla corona spagnola abbiamo legato i nostri destini e l’abbiamo servita sempre con onestà, ricavandone ruoli di prestigio e grandi fortune. Mia madre, Ana Maria de Moncada, era l’erede di una dinastia tra le più potenti del Mediterraneo, in un tempo in cui la Spagna estendeva la sua influenza ovunque, anche in Italia, dal nord al sud. Fui data in sposa a un giovane degno del mio lignaggio: Aniello de Guzman y Carafa, rampollo di una delle case nobiliari più importanti del tempo che vantava legami non solo con le più blasonate famiglie nobili iberiche, ma anche con quelle italiane (come i Gonzaga e gli Aldobrandini). Don Aniello, il mio nobile marito, fu nominato viceré di Sicilia nel 1676. Ma una volta giunto sull’isola, si ritrovò a gestire una situazione non facile: in un tempo in cui il dominio dei mari assicurava potenza e ricchezza, la Sicilia, isola in mezzo al Mediterraneo, era un luogo strategico a cui miravano anche le altre potenze europee. E la minaccia, allora, veniva soprattutto dalla Francia. Il mio illustre marito decise di prendere tempo e di chiedere aiuto a Madrid, perché nuovi finanziamenti arrivassero in aiuto delle flotte per i combattimenti e aiutassero a lenire gli affanni della popolazione.

Il Signore, però, aveva in serbo un altro destino per noi: il mio Illustre sposo si ritrovò sul letto di morte prima di ricevere quanto richiesto al re di Spagna. E così la notte del 16 Aprile 1677 investì me, sua moglie, dona Leonor de Moura, alla sua successione nell’amministrazione del governo del Regno di Sicilia. Non avevamo avuto in sorte dei figli. Alle 4 del mattino prestai il mio giuramento: ero la prima donna (e sarei stata anche l’ultima) chiamata al ruolo di viceré in Sicilia.

 

Il mio volto non si trova in alcun ritratto che rammenti la mia identità, il mio nome non compare in nessun elenco della storia del vicereame siciliano: il mio incarico durò soltanto 28 giorni, proprio come il ciclo della Luna, l’astro femminile che governa le maree. E io fui portata in breccia a un’onda soltanto per quel tempo necessario al potere maschile di organizzarsi per travolgermi e allontanarmi. O, forse, hanno preferito occultare il mio nome come si fa coi brutti ricordi e i cattivi esempi: un incidente di percorso che non doveva ripetersi mai più.

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Scuola lombarda, “Ritratto di nobildonna” (dettaglio)

Ho potuto esercitare il mio governo per poche settimane, è vero, ma ho fatto tutto quello che credevo fosse necessario e giusto; sono riuscita a firmare diversi provvedimenti anche per l’economia dell’isola.  Ho riaperto il “Conservatorio per le Vergini pericolanti”, ovvero l’istituto che si preoccupava di aiutare quelle fanciulle orfane e povere che avrebbero potuto prendere una brutta strada senza un adeguato supporto: era stato chiuso per mancanza di fondi, ma io li ho trovati e ne ho versati altri anche per aiutare le ex prostitute pronte a cambiare vita. Ho deciso la riduzione delle tasse per chi avesse una famiglia numerosa e ho anche abbassato il prezzo del pane, perché la povera gente potesse vedere nella corona di Spagna un sostegno, non un tiranno. E sì, il 4 Maggio 1677 ho anche firmato la grazia a un condannato… Avrebbe fatto altro un uomo al mio posto?

 

La portata di questi provvedimenti mi fece guadagnare l’affetto della popolazione, ma probabilmente preoccupò le alte sfere del governo. E così arrivò la mia destituzione, ufficialmente motivata dal fatto che, poiché la carica di Vicerè era legata indissolubilmente a quella di Legato Papale, una donna come me era inadatta a ricoprirla. E, infatti, al mio posto fu nominato il vescovo di Toledo e io fui costretta a lasciare la Sicilia per tornare in Spagna.

 

Fu un’umiliazione, certo, ma io restavo pur sempre dona Leonor de Moura: su di me cominciarono a concentrarsi le mire dinastiche dei casati più importanti del Regno di Spagna. Circa un anno dopo le vicende siciliane che ho sopra ricordato, il 30 Novembre 1678 mi unii in matrimonio con Carlo II Omodei. Io avevo già 36 anni, il mio sposo 12 di meno. Ero già vedova, non ero ancora riuscita a diventare madre, ma don Carlo sembrò non curarsene e mi volle al suo fianco.

 

Fu grazie a lui che conobbi il Milanesado e il borgo di Cusano: proprio come la lontana Sicilia, erano possedimenti spagnoli e il mio Illustre marito, che aveva accumulato innumerevoli titoli grazie al prestigio del casato degli Omodei e alle onorificenze per i loro servigi, pochi anni prima aveva ricevuto anche l’investitura a Signore di Cusano (1675). Frequentai io stessa quel piccolo borgo e lo splendido palazzo della famiglia Omodei. Volevo lasciare un segno anche qui, come nella Sicilia che mi ero lasciata alle spalle: volevo che di me serbasse un ricordo soprattutto la povera gente. E a Cusano vidi che le cascine e i campi erano fuori dal centro abitato che si sviluppava intorno al palazzo di mio marito. Si trovavano in prossimità della strada che portava a Milano, dove sorgeva anche una chiesetta che chiamavano “il Pilastrello”: lì la fede e la devozione mi parvero ancora più autentiche che nella bella chiesa parrocchiale che si ergeva vicino al nostro palazzo. Fu questo che mi spinse a portare dalla Spagna la statua della Madonna della Cintura, perché venisse collocata proprio in quella chiesetta cusanese: era il 3 Novembre 1690 quando fu collocata sull’altare e benedetta. Pregai anch’io quella Madonna, Dio solo sa quanto, ma l’unico figlio nato dal mio matrimonio con Carlo Omodei morì in tenera età. E non ebbi la grazia di averne un altro. Un dolore che mi ha accompagnata per tutto il resto della mia vita, fino a quando ho reso la mia anima al Cielo nel 1706.

Dopo la mia morte, so che mio marito Carlo cercò di assicurarsi un erede con un secondo matrimonio: era l’unico modo per poter dare un futuro al casato degli Omodei, poiché il fratello Luigi era cardinale a Roma, come era stato il loro illustre zio, Don Luigi Alessandro Omodei. Purtroppo, però, rimase senza prole anche la seconda unione.

E così, senza eredi diretti, quando il mio caro marito don Carlo II Omodei morì nel 1725, il suo ingente patrimonio venne diviso tra le famiglie collaterali del parentado:  gli Archinto, i Borromeo Arese, i Visconti Borromeo e i Pio di Savoia nella persona del figlio di mia sorella, l’Illustre Don Gilberto II, a cui andò in eredità anche Palazzo Omodei a Cusano. Quel palazzo e quel borgo che io avevo tanto amato e dove spero non dimentichino il mio nome. Anche se è quello “SOLO” di una donna.

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