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Luigi Alessandro Omodei

Sancte Romanæ Ecclesiæ Cardinalis Omodei

D.O.M.

Con l’evidente avvicinarsi della conclusione di questa mia vita terrena, dopo settantasei inverni è d’uopo che anche io, Luigi Alessandro, Cardinale Omodei di Santa Romana Chiesa, mi riservi un momento per riflettere su quanto avvenuto nel corso del mio peregrinare per le contrade del mondo. 

Mi azzardo ad affermare che, non fosse per la sua perfettissima onniscienza, forse persino Nostro Signore sarebbe stupito nel notare quanto il mondo sia mutato nei decenni che ci separano dal giorno della mia nascita, l’8 dicembre del milleseicentottesimo anno dopo la venuta del Salvatore. Nacqui in Milano, settimo figlio di una formidabile unione matrimoniale tra Carlo I Omodei e Beatrice Lurani.

La Previdenza ha lungamente accordato alla mia stirpe gloria e prosperità: originari di Pavia, gli Omodei iniziarono ad affermarsi sulla scena pubblica già cinque secoli fa. Tuttavia, fu proprio la generazione precedente alla mia a consacrare definitivamente la famiglia all’empireo dei grandi: il mio nobile padre, il marchese Carlo I, e mio zio, Emilio Omodei, esperto nell’arte della finanza, diedero lustro al nostro nome. 

La prima a beneficiarne fu mia sorella, donna Lucrezia, la cui figura matronale si intravedeva già nel fulgore dell’adolescenza. Conobbi poco il suo primo marito, Cesare Visconti di Cislago, ma, al contrario, a lungo ebbi a lavorare con il suo secondo sposo. Quando, nel 1634, Lucrezia si unì a Bartolomeo III Arese, pur nell’inesperienza dei miei vent’anni intuii quanto tutti noi avremmo beneficiato da questa nuova alleanza con una famiglia ricca e potente, il cui pupillo era presidente del Senato e baricentro della politica milanese. 

A quel tempo erano già trascorsi i pochi anni spensierati degli studi, che trascorsi dapprima a Parma e in seguito a Perugia. In quanto figlio maschio non primogenito, seguii dapprima con riluttanza, ma in seguito con fervore, il cursus che la legge del maggiorascato prevedeva per me: la mia esistenza sarebbe stata consacrata alla gloria del Signore. Fu così che, entrato nelle gerarchie ecclesiastiche, cominciai una lenta ma costante ascesa gerarchica. Sette anni prima del matrimonio di Lucrezia divenni protonotario apostolico, entrando così di diritto nella curia romana e affacciandomi alla possibilità del cardinalato. Fu quella l’occasione dell’inizio dei miei soggiorni a Roma, che divenne, di fatto, la mia seconda patria.

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Nel frattempo, le sorti della mia famiglia proseguivano il loro percorso di miglioramento. La seconda figlia dei miei genitori, mia sorella Clara, andò in sposa a Giovanni Pietro Affaitati, contribuendo così al rafforzamento dell’alleanza con le potenti famiglie cremonesi. Mio fratello maggiore, Giovanni Giacomo III, fu stato investito dal Signore della benedizione della primogenitura maschile: dal raggiungimento della maggiore età fu lui a portare in alto le insegne omodeiane, riservandosi notevole lustro come deputato alla Fabbrica del Duomo e garantendosi una successione di spicco grazie al matrimonio con Antonia de Mendoza. Talvolta rimpiansi il suo trasferimento a Madrid, ma mi consolava saperlo nella culla della cattolicissima Spagna. Tuttavia, scomparve alla giovane età di 28 anni, e il privilegio dinastico passò a mio fratello Agostino III, che, originariamente destinato alla carriera ecclesiastica, acquisì gloria in una brillante carriera amministrativa e si unì nel 1640 a Maria Pacheco de Moura, consolidando così lo storico legame degli Omodei con la nobiltà di Spagna. 

Per conto mio, nel dedicare le mie fatiche alla preghiera e all’amministrazione della Sua Santa Chiesa, mi sono fatto strada all’interno della piramide ecclesiastica: gli anni tra il 1638 e il 1644 mi hanno visto svolgere i ruoli di referendario, chierico di camera e decano di camera, finché, nel 1648, sono stato nominato provveditore generale alle fortezze pontificie. La porpora si faceva sempre più vicina – e il Signore perdonerà il ricordo della mia ambizione malcelata di allora. Nella mia permanenza romana feci di tutto per non trascurare le vicende della mia famiglia. Ancora prego e soffro al ricordo della morte in fasce del quarto figlio dei miei genitori, Carlo Giovanni Battista II. 

Fu all’età di quarant’anni, il sedici febbraio 1649, che Sua Santità Innocenzo X decorò il mio abito talare della porpora cardinalizia. Fui sempre fedele al Pontefice che mi innalzò al rango più alto e alla sua dottrina. Da allora alternai una lunga serie di mansioni burocratiche e militari, e in seno alla curia divenni progressivamente uno dei più importanti esponenti della fazione milanese. 

Poco tempo dopo, una nuova catastrofe si abbatté sul casato degli Omodei: mio fratello Carlo Giovanni Battista III scomparve prematuramente due anni dopo il mio cardinalato, stroncando così una brillante carriera civica a Milano. Il Signore reclamò a sé anche l’ottavo dei figli di Carlo I, Francesco Maria. Ciononostante, la famiglia prosperava. In ordine d’età restavamo Lucrezia, Clara, Agostino, il sottoscritto, Costanza... e Beatrice Eleonora. La più giovane delle mie sorelle divenne presto monaca nel monastero di Santa Maria della Vittoria, di cui, con gli anni, sarebbe diventata priora. Fu lei a curarsi delle salme dei nostri fratelli, che fece traslare nei mausolei berniniani del suo convento.
 

Fu nel triennio 1655-1658 che, almeno all’apparenza, la Provvidenza parve voltarmi le spalle. Il nuovo Pontefice, Alessandro VII Chigi, mi spedì a Urbino in qualità di prolegato al fine di indebolire la fazione milanese della curia. “Lo Squadrone Volante”, avevamo preso a chiamarci. Eravamo un gruppo di porporati animati da un disegno comune : far sì che il conclave fosse liberato dai giochi politici dei sovrani d’Europa. Il nostro più grande successo? Condurre Clemente X alla cattedra di Pietro, inaugurando così un periodo di prosperità dottrinale per la nostra fazione. 

Giunsi all’acme della mia gloria nell’Anno del Signore 1676, quando al soglio pontificio fu eletto Innocenzo XI Odescalchi, mio caro e stimato amico. Da allora tutti mi considerano una figura centrale del collegio cardinalizio, talvolta dimenticando come noi porporati siamo i materiali esecutori della volontà dello Spirito Santo. 

Ed eccomi, pronto ad accommiatarmi dalle mie spoglie terrene dopo un’esistenza consacrata alla gloria di Dio e al benessere della miei famigliari. Per quanto concerne questi ultimi, confido che il potere e la prosperità degli Omodei saranno salvaguardati dalla consorteria a cui apparteniamo, il potente legame famigliare con gli Arese, gli Archinto e i Visconti Borromeo che ci ha reso una delle dinastie più influenti del nord Italia. 

Se c’è un elemento della mia esistenza che ha elevato il mio spirito tanto quanto la preghiera – non è forse l’arte una forma di preghiera? – è la dedizione che ho investito nell’attività di magnate e committente. Milano, sede storica della residenza ufficiale della mia famiglia presso palazzo Marino de Leyva, e Roma, il centro della mia vita spirituale, hanno sempre rappresentato per me due tensioni artistiche da riconciliare tramite uno sguardo comune. Non a caso ho personalmente sorvegliato gli interventi presso le chiese di Santa Maria della Vittoria a Milano e dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso a Roma, dove per mia esplicita volontà si sono moltiplicati gli scambi di conoscenze e abilità degli artisti che vi hanno lavorato. 

Ho avuto il privilegio di vedere all’opera i talenti che il Signore ha attribuito ad alcuni dei più grandi artisti del nostro tempo, come Salvator Rosa e Storer. Sentivo di rendere uno dei più alti servigi a Dio promuovendo l’abbellimento delle sue case terrene, quella distesa di chiese che punteggia la penisola e l’Europa intera e che presso le due città della mia vita trova una concentrazione sorprendente. 

Forte dell’occhio artistico che ho affinato con l’attività di committente, sono stato io a promuovere la campagna di decorazione della residenza extraurbana degli Omodei: un delizioso palazzo sito in Cusano, piccolo villaggio campestre a ridosso del Seveso. Quivi sollecitai l’intervento di colui che era a tutti gli effetti divenuto il pittore ufficiale della consorteria degli Arese: è a Ghisolfi che si debbono la maggior parte dei meravigliosi affreschi che punteggiano le pareti del palazzo. Ciò che mi ha sempre colpito della sua mano è la capacità di non fermarsi esclusivamente al senso di meraviglia e stupore che i suoi inganni ottici provocano nello spettatore, ma di porre in essere una riflessione iconografica sul confine tra vero e verosimile. Sarà mia personale cura provvedere alla messa in sicurezza della mia collezione di dipinti conservata nel palazzo di Cusano: conosco la volubilità della natura umana e so bene come lo stile presto passi di moda. Particolarmente care mi sono le tele degli Apostoli realizzate dallo Spagnoletto e l’Artemisia del Cavaliere del Cairo, e per tutelarle ho già dato ordine di realizzare un inventario molto dettagliato, in modo da far sì che i miei esecutori testamentari sappiano esattamente quante e quali opere sarà necessario gestire.. 

Eccomi quindi giunto, dopo un’esistenza intensa e ricchissima, consacrata alla venerazione della bellezza dell’opera divina, al proverbiale momento di tirare le somme. Non sta ai mortali giudicare loro stessi, ma guardandomi indietro non vedo opere di un male tale da non poter essere perdonate. Mi rimetto alla volontà di Nostro Signore, al quale affido la prosperità della mia famiglia e della cristianità tutta. 
 

Luigi Alessandro,

Sanctæ Romanæ Ecclesiæ Cardinalis Omodei

Cusano, 27 settembre 1690 

 

Ritrovato presso la sua residenza romana questo cartiglio steso dalla mano del mio venerabile zio, ritengo opportuno, cinque anni dopo la sua morte, completare la ricostruzione delle sue vicende terrene. Chi redige queste poche righe di chiusura è Luigi III Omodei, figlio di Agostino III, fratello maggiore dello scomparso cardinale. La figura rispettabile e folgorante di mio zio fu sempre per me un esempio illustre verso il quale tendere, al punto tale che io stesso ho consacrato la mia esistenza al Signore e, pochi mesi fa, sono stato insignito della porpora cardinalizia. Ritengo dunque doveroso portare a compimento quest’ultima fatica del mio nobile parente, narrando ai posteri della fine del suo cammino sulla Terra. 

Dopo aver magnificato, in opere e pensieri, l’opera del Signore, per quasi cinquant’anni in veste di membro del clero e per quasi quaranta come membro del Sacro Collegio, Luigi Alessandro Omodei, Cardinale di Santa Romana Chiesa, è tornato alla casa del Padre il 26 aprile 1685, alla venerabile età di settantasei anni. Il cardinale si è spento a Roma, presso la sua residenza nel palazzo all’Arco della Ciambella, e, conformemente a quanto espresso nel suo testamento, è stato esposto e infine sepolto nella chiesa nazionale lombarda dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, alla quale egli stesso aveva dedicato molto interesse e premura affinché spiccasse per bellezza e decorazioni. Riposa nel deambulatorio, ai piedi del reliquiario del cuore di San Carlo Borromeo. 

Possa chiunque giungerà, in un futuro vicino o lontano, in possesso di questi scritti, ammirare lo spirito e le opere di Luigi Alessandro Omodei e ricordare che tutte le sue azioni furono volte alla maggior gloria di Dio.

 

Luigi III,
Sanctæ Romanæ Ecclesiæ Cardinalis Omodei

Testo: Simone Binda​

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